.. Saluti, prof Franco Abruzzo
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La sentenza 11/1968 della Corte costituzionale ridicolizza tutti gli attacchi recenti che confondono le norme con le delibere disciplinari scritte dai Consigli regionali dell’Ordine. L’Ordine dei Giornalisti è legittimo
A) perché “lascia integro il diritto di tutti di esprimere il proprio pensiero attraverso il giornale”.
B) perché l’Albo è obbligatorio soltanto per coloro che “manifestanoil pensiero” per professione.
C) perché tutela, con la deontologia, “la libertà degli iscritti nei confronti del contrapposto potere economicodel datori di lavoro”.
D) perché “i poteri disciplinari conferiti i Consigli non sono tali da compromettere la libertà degli iscritti”.
Pubblichiamo la parte conclusiva della sentenza 11/1968 con la quale la Corte costituzionale ha riconosciuto la legittimità dell’Ordine dei Giornalisti nato con la legge 63/1969: Considerato in diritto
4. - Ciò posto, la Corte osserva che per un'esatta valutazione del fondamento della questione sottoposta al suo esame occorre tener presente che la legge impugnata, realizzando un proposito espresso fin dal 1944 dal legislatore democratico (art. 1 del D.L. Lt. 23 ottobre 1944, n. 302), disciplina l'esercizio professionale giornalistico e non l'uso del giornale come mezzo della libera manifestazione del pensiero: sicché è esatto quanto sostengono sia la difesa dell'Ordine di Sicilia sia l'Avvocatura dello Stato, che essa non tocca il diritto che a "tutti" l'art. 21 della Costituzione riconosce. Questo sarebbe certo violato se solo gli iscritti all'albo fossero legittimati a scrivere sui giornali, ma è da escludere che una siffatta conseguenza derivi dalla legge. Ne costituisce riprova, oltre l'oggetto stesso del provvedimento, l'esplicita disposizione contenuta nell'art. 35: il quale, in quanto subordina l'iscrizione nell'elenco del pubblicisti alla prova che il soggetto interessato abbia svolto un'"attivita' pubblicistica regolarmente retribuita per almeno due anni", dimostra che la stessa legge considera pienamente lecita anche la collaborazione ai giornali che non sia ne' occasionale ne' gratuita. Senza che ci sia bisogno di affrontare questioni di interpretazione non essenziali per la presente decisione, appare certo che l'art. 35 circoscrive la portata del divieto sancito nell'art. 45, limita l'estensione dell'obbligo di iscrizione all'albo e, in definitiva, conferma che l'appartenenza all'Ordine non e' condizione necessaria per lo svolgimento di un'attivita' giornalistica che non abbia la rigorosa caratteristica della professionalita'.
5. - Questa conclusione, tuttavia, non esaurisce la questione sottoposta alla Corte. L'esperienza dimostra che il giornalismo, se si alimenta anche del contributo di chi ad esso non si dedica professionalmente, vive soprattutto attraverso l'opera quotidiana del professionisti. Alla loro libertà si connette, in un unico destino, la libertà della stampa periodica, che a sua volta è condizione essenziale di quel libero confronto di idee nel quale la democrazia affonda le sue radici vitali. E nessuno può negare che una legge la quale, pur lasciando integro il diritto di tutti di esprimere il proprio pensiero attraverso il giornale, ponesse ostacoli o discriminazioni all'accesso alla professione giornalistica ovvero sottoponesse i professionisti a misure limitative o coercitive della loro libertà, porterebbe un grave e pericoloso attentato all'art. 21 della Costituzione.
Sotto questo secondo profilo della questione, che di certo e' il piu' delicato, la Corte deve in primo luogo accertare se l'istituzione stessa di un Ordine giornalistico e l'obbligatorietà della iscrizione nell'albo non costituiscano di per se' una violazione della sfera di libertà di chi al giornalismo voglia professionalmente dedicarsi.
La Corte ritiene che a tale interrogativo si debba dare una risposta negativa. Chi tenga presente il complesso mondo della stampa nel quale il giornalista si trova ad operare o consideri che il carattere privato delle imprese editoriali ne condiziona le possibilità di lavoro, non può sottovalutare il rischio al quale è esposto la sua libertà né può negare la necessità di misure e di strumenti a salvaguardarla. Per la decisione della presente questione - alla quale, per quanto si e' detto al n. 3, resta estranea la rilevanza degli ulteriori profili di pubblico interesse (fra i quali quello inerente all'osservanza del canoni della deontologia professionale) soddisfatti dalla legge - e' in vista di tale finalita' che va valutata la funzione che l'Ordine puo' svolgere. Il fatto che il giornalista esplica la sua attività divenendo parte di un rapporto di lavoro subordinato non rivela la superfluità di un apparato che secondo l'avviso della difesa del Longhitano si giustificherebbe solo in presenza di una libera professione, tale il senso tradizionale. Quella circostanza, al contrario, mette in risalto l'opportunità che i giornalisti vengano associati in un organismo che, nei confronti del contrapposto potere economico del datori di lavoro, possa contribuire a garantire il rispetto della loro personalità e, quindi, della loro libertà: compito, questo, che supera di gran lunga la tutela sindacale del diritti della categoria e che perciò può essere assolto solo da un Ordine a struttura democratica che con i suoi poteri di ente pubblico vigili, nei confronti di tutti e nell'interesse della collettività, sulla rigorosa osservanza di quella dignità professionale che si traduce, anzitutto e soprattutto, nel non abdicare mai alla libertà di informazione e di critica e nel non cedere a sollecitazioni che possano comprometterla.
Si deve tuttavia ribadire che questa conclusione positiva è valida solo se le norme che disciplinano l'Ordine assicurino a tutti il diritto di accedervi e non attribuiscano ai suoi organi poteri di tale ampiezza da costituire minaccia alla libertà dei soggetti. E in questa ulteriore direzione va ora rivolta l'indagine affidata alla Corte.
6 - Il divieto posto nell'art. 45, come si e' detto, condiziona all'iscrizione nell'albo il legittimo esercizio della professione giornalistica, ed esso, a causa del disposto contenuto nell'art. 36, si risolve in un divieto assoluto per gli stranieri che siano cittadini di uno Stato che non pratichi il trattamento di reciprocita'. Da cio' scaturisce la necessita' di accertare se esso non sia in contrasto con l'art. 21 della Costituzione che a tutti, e non ai soli cittadini, garantisce il fondamentale diritto di esprimere liberamente e con ogni mezzo il proprio pensiero.
La Corte - anche richiamando quanto esposto al n. 4 - ritiene che, in se considerato, il presupposto del trattamento di reciprocità per l'accesso alla professione giornalistica non sia illegittimamente stabilito, e cio' perche' e' ragionevole che in tanto lo straniero sia ammesso ad un'attivita' lavorativa in quanto al cittadino italiano venga assicurata una pari possibilita' nello Stato al quale il primo appartiene. Questa giustificazione, pero', non puo' estendersi all'ipotesi dello straniero che sia cittadino di uno Stato che non garantisca l'effettivo esercizio delle liberta' democratiche e, quindi, della piu' eminente manifestazione di queste. In tal caso, atteso che ad un regime siffatto puo' essere connaturale l'esclusione del non cittadino dalla professione giornalistica, il presupposto di reciprocita' rischia di tradursi in una grave menomazione della liberta' di quei soggetti ai quali la Costituzione - art. 10, terzo comma - ha voluto offrire asilo politico e che devono poter godere almeno in Italia di tutti quei fondamentali diritti democratici che non siano strettamente inerenti allo status civitatis.
Limitatamente a questa parte, dunque, l'art. 45 deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo.
7. - Passando all'esame delle norme che disciplinano l'accesso all'albo, devono essere presi in considerazione gli artt. 29, 33, 34 e 35 della legge, che formano oggetto dell'impugnativa ritualmente proposta dal pretore di Catania.
Ad avviso della Corte, i dubbi di costituzionalità manifestati dal giudice a quo non appaiono fondati.
L'art. 29 richiede per l'iscrizione nell'elenco del professionisti, fra l'altro, l'iscrizione nel registro del praticanti e l'esercizio della pratica per almeno diciotto mesi: dal combinato disposto di questa norma e degli artt. 33 e 34 discende, secondo il pretore, che l'accesso al registro del praticanti e, mediatamente, all'albo è rimesso alla completa discrezionalità degli editori, del direttori e degli altri giornalisti già iscritti. La Corte osserva che, se è vero che ove il soggetto interessato non trovi un giornale che lo assuma come praticante egli non potrà mai intraprendere la carriera giornalistica, è altrettanto vero che neppure il giornalista iscritto può svolgere la sua attività professionale se non trova un editore disposto ad assumerlo: il che dimostra che ci si trova di fronte a conseguenze che non derivano dalla legge in esame, ma dalla struttura privatistica delle imprese editoriali, nell'ambito della quale la non discriminazione può essere assicurata soltanto dalla concorrenza della molteplicità delle iniziative giornalistiche.
Neppure può dirsi che il secondo comma dell'art. 34, in quanto richiede che lo svolgimento della pratica sia comprovata da una dichiarazione motivata del direttore del giornale, all'arbitrio di questi rimetta la valutazione di un presupposto per l'iscrizione nell'elenco del giornalisti. In effetti, poiché non risulta che l'Ordine abbia il potere di esprimere un giudizio di ammissibilità basato sull'apprezzamento del modo in cui l'interessato ha esercitato la pratica, si deve concludere che la motivazione del direttore deve avere ad oggetto solo gli elementi formali del rapporto (durata, continuita') e non può mai tradursi in un sindacato sul pensiero espresso dal praticante.
Non si vede, infine, in che modo il Consiglio dell'Ordine possa esercitare poteri arbitrari in ordine all'iscrizione nell'albo: chiamato a verificare la sussistenza di elementi tassativamente indicati dalla legge ed a prendere atto del giudizio positivo delle prove di esame predisposte per un accertamento tecnico, il Consiglio non può neppure liberamente valutare la buona condotta (art. 31, secondo comma) del richiedente, ma deve accertarla sulla base di fatti, secondo canoni elaborati in base ad una consolidata tradizione e con l'esclusione di ogni apprezzamento di atteggiamenti che costituiscano estrinsecazione delle libertà garantite dalla Costituzione. Val la pena di aggiungere che la legge impone che i provvedimenti di rigetto della domanda siano motivati (art. 30) e predispone su di essi il controllo giurisdizionale (art. 63), assicurando in tal modo la repressione di ogni abuso.
Del pari non fondata è la questione relativa al primo comma dell'art. 35, impugnato nella parte in cui stabilisce che al fine dell'iscrizione nell'elenco dei pubblicisti il richiedente deve offrire la dimostrazione di aver svolto attività retribuita da almeno due anni. Il timore espresso dal giudice a quo che questa norma consenta un sindacato sulle pubblicazioni non ha ragione di essere, perché la certificazione dei direttori e la esibizione degli scritti sono elementi richiesti solo al fine di consentire che venga accertato se l'attività sia stata esercitata né occasionalmente ne' gratuitamente e per il tempo richiesto dalla legge, e non anche allo scopo di imporre o di permettere una valutazione di merito capace di risolversi, come afferma l'ordinanza, in "una forma larvata di censura ideologica".
8. - Poiché l'ordinanza denunzia che l'obbligatorietà dell'iscrizione nell'albo, sancita dal denunziato art. 45, rimette alla piena "discrezionalità altrui" l'esercizio del diritto riconosciuto dall'art. 21 della Costituzione, con conseguente violazione anche dell'art. 3, la Corte non può sottrarsi al compito di esaminare altre disposizioni della legge che possano incidere sul diritto all'iscrizione nell'albo, e ciò non per esercitare un controllo su norme che, per quanto si é detto al n. 2, non sono state ritualmente impugnate, ma solo per accertare se il loro contenuto sia tale da determinare l'illegittimità dell'art. 45.
Sotto questo profilo ed a questi limitati effetti vengono in esame l'art. 24, che attribuisce al Ministro per la grazia e giustizia l'alta sorveglianza sui Consigli dell'Ordine, e le disposizioni che conferiscono ai Consigli poteri disciplinari che sull'iscrizione all'albo possono incidere in via temporanea (art. 54) o definitiva (art. 55).
La Corte osserva che il potere del Ministro, corollario del pubblico interesse al regolare funzionamento dei Consigli, ha per contenuto i provvedimenti indicati nel secondo e nel terzo comma dello stesso art. 24, sicché nessuna ingerenza e' consentita all'esecutivo sulla attività amministrativa relativa agli iscritti, salva la implicita possibilità di segnalare fatti che ai sensi dell'art. 48 possano giustificare il promovimento dell'azione disciplinare: nel che non si può riscontrare, in verità, nessun rischio di abuso.
La Corte ritiene, del pari, che i poteri disciplinari conferiti ai Consigli non siano tali da compromettere la libertà degli iscritti. Due elementi fondamentali vanno tenuti ben presenti: la struttura democratica del Consigli, che di per sé rappresenta una garanzia istituzionale non certo assicurata dalla legge precedentemente in vigore (D.L. Lt. 23 ottobre 1944, n. 302), in base alla quale la tenuta degli albi e la disciplina degli iscritti sono state affidate per circa venti anni ad un organo di nomina governativa; e la possibilità del ricorso al Consiglio nazionale ed il successivo esperimento dell'azione giudiziaria nei vari gradi di giurisdizione. L'uno e l'altro concorrono sicuramente ad impedire che l'iscritto sia colpito da provvedimenti arbitrari. Essi, tuttavia, non sarebbero sufficienti a raggiungere tale scopo, se la legge stessa prevedesse, sia pure implicitamente, una responsabilità del giornalista a causa del contenuto dei suoi scritti e ammettesse una corrispondente possibilità di sanzione, perché in tal caso la libertà riconosciuta dall'art. 21 sarebbe messa in pericolo e l'art. 45 - norma di chiusura dell'intero ordinamento giornalistico - risulterebbe illegittimo. Ma la legge non consente affatto una qualsiasi forma di sindacato di tale natura. Se la definizione degli illeciti disciplinari, come è inevitabile, non si articola in una previsione di fattispecie tipiche, bisogna pur considerare che la materia trova un preciso limite nel principio fondamentale enunciato dalla stessa legge nell'art. 2. Se la libertà di informazione e di critica è insopprimibile, bisogna convenire che quel precetto, più che il contenuto di un semplice diritto, descrive la funzione stessa del libero giornalista: è il venir meno ad essa, giammai l'esercitarla che può compromettere quel decoro e quella dignità sui quali l'Ordine è chiamato a vigilare.
Da: Francesco Abruzzo [mailto:fabruzzo39@yahoo.it]
Inviato: sabato 20 novembre 2010 14.50
A: segreteria.stampa@esteri.it; stampa.caposervizio@esteri.it
Cc: 'Francesco Abruzzo'
Oggetto: I: Frattini e l'Ordine dei Giornalisti. Ignoranxa bestiale di un ministro (magistrato del Consiglio di Stato)
Informate per cortesia il ministro. Almeno studi. Cordiali saluti, prof Franco Abruzzo, giornalista professionista, già presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia (1989-2007) . cell 3461454018 – casa 022484456 – email: fabruzzo39@yahoo.it
Da: Francesco Abruzzo [mailto:fabruzzo39@yahoo.it]
Inviato: sabato 20 novembre 2010 14.32
A: 'Francesco Abruzzo'
Oggetto: Frattini e l'Ordine dei Giornalisti. Ignoranxa bestiale di un ministro (magistrato del Consiglio di Stato)
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FRATTINI: ABOLIAMO
L’ORDINE, SPEGNE
le VOCI LIBERE. CAMICIA
DI FORZA. Per l’indipendenza
BASTA l’ALBO e il sindacato.
SU FELTRI scelta politica.
L’ignoranza bestiale di un
magistrato del Consiglio di Stato
in conflitto con il Consiglio di Stato.
Consiglio di Stato: “L’istituzione dell’Ordine e del relativo albo per l’esercizio della professione giornalistica è, poi, correlata al valore costituzionale del diritto all’informazione libera, di cui all’art. 21, comma 2, Cost. e trova dunque una specifica e rafforzata ragione nell’interesse generale di "salvaguardare la dignità professionale e la libertà di informazione e di critica degli iscritti" [C. Cost., n. 38/1997, cit; 8 febbraio 1991, n. 71]…... Sempre a proposito della professione giornalistica, la stessa Corte ebbe a chiarire che l’Ordine professionale dei giornalisti è (al pari degli altri ordini e Collegi professionali) ente pubblico non economico che emette provvedimenti costitutivi del particolare status professionale di giornalista, al fine di perseguire fini di interesse generale, che superano di gran lunga la tutela sindacale dei diritti della categoria nel rapporto di lavoro subordinato con l’impresa giornalistica [C. Cost., 8 febbraio 1991, n. 71; che richiamò la precedente sentenza n. 11 del 1968]”.
Roma, 20 novembre 2010. L'Ordine dei giornalisti «va abolito». È secco il parere del ministro degli Esteri, Franco Frattini, secondo il quale l'Ordine «spegne le voci libere» come quella di Vittorio Feltri, contro il quale è stata presa «una precisa scelta politica». «L'Ordine con il suo potere di disciplina serve solo a irregimentare chi fa il giornalista di mestiere - incalza Frattini intervistato dal Giornale - a mettere le mani sulla sua carriera e libertà», e peraltro, ricorda il titolare della Farnesina, «è una creazione mussoliniana che esiste solo in Italia e in Portogallo, lì pure istituito dalla dittatura», che già Luigi Einaudi definiva «immorale, prono ai voleri dei tiranni». L'Ordine, insomma, «è una corporazione, il che confligge con la libertà, l'indipendenza e la trasparenza che devono caratterizzare il mestiere di giornalista». Per regolare la professione basterebbe invece «un albo, che dica chi lavora e dove» e «il direttore e l'editore che assumono, giudicano e licenziano». E per la tutela della categoria «c'è il sindacato, non serve mica la camicia di forza». (ANSA)
NOTA - Il ministro, magistrato del Consiglio di Stato, ignora che la legge istitutiva dell’Ordine porta il n. 69 del 3 febbraio 1963 e che fu voluta da due eminenti figure della democrazia italiana, Guido Gonella e Aldo Moro. Il regime fascista nel 1926 ha abolito gli Ordini e ne ha trasferito il ruolo e le funzioni ai sindacati fascisti regionali collocandoli nello Stato corporativo. Gli Ordini sono rinati nel 1944 con il decreto legislativo luogotenenziale n. 384. Il ministro non conosce nemmeno il parere della II sezione del Consiglio di stato che spiega perché quella dei giornalisti è una professione collocata nel contesto dell’articolo 33, V comma, della Costituzione (che prevede l’esame di stato per accedere all’esercizio delle professioni).
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Parere 448/01 della II sezione del Consiglio di Stato:
“La prova di idoneità è l’esame di Stato
richiesto dalla Costituzione. Non
sussistono motivi ostativi alla riforma
dell’ordinamento professionale dei giornalisti”.
“Non è dubitabile che l’attività giornalistica costituisca "esercizio professionale" come previsto dall’art. 33, comma 5, Cost. Essa, infatti, anche se svolta nella forma di lavoro dipendente, rientra nella previsione delle "professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi o elenchi", di cui all’art. 2229 cod. civ. Tale professione è infatti subordinata all’iscrizione nell’albo dei giornalisti istituito, come detto, dalla legge n. 69/1963.
Condizione per l’iscrizione in tale albo è il superamento di una "prova di idoneità professionale" caratterizzata da quei requisiti di serietà e oggettività, di cui è riferimento nelle pronunce della Corte sopra ricordate; art.32 L. n. 69 ed art. 44 del regolamento attuativo emanato con DPR 4 febbraio 1965, n. 115.
L’istituzione dell’Ordine e del relativo albo per l’esercizio della professione giornalistica è, poi, correlata al valore costituzionale del diritto all’informazione libera, di cui all’art. 21, comma 2, Cost. e trova dunque una specifica e rafforzata ragione nell’interesse generale di "salvaguardare la dignità professionale e la libertà di informazione e di critica degli iscritti" [C. Cost., n. 38/1997, cit; 8 febbraio 1991, n. 71].
La natura professionale dell’attività giornalistica trova, d’altronde, conforto dal combinato dispositivo dall’art. 1, comma 3 e dell’art. 2, del D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 115 (Attuazione della direttiva n. 89/48/CEE relativa ad un sistema generale di riconoscimento dei diplomi di istruzione che sanzionano formazioni professionali di una durata minima di tre anni) e nel decreto MURST del 28 novembre 2000.
La prima fonte ha fissato il principio per cui l’esercizio delle professioni presuppone il superamento di un ciclo di studi postsecondari di una durata minima di tre anni o di durata equivalente a tempo parziale, in una università o in un istituto di istruzione superiore o in altro istituto dello stesso livello di formazione”.
……………………………
Consiglio di Stato. Adunanza della Sezione Seconda 13 marzo 2002.
N. Sezione 448/2001
Parere n. 2228 depositato il 7 maggio 2002
Oggetto: Ministero dell’Istruzione Ricerca e Università – Art. 1, comma 18, legge 14 gennaio 1999, n. 4 e successive modificazioni e integrazioni. Richiesta parere facoltativo al Consiglio di Stato sulla possibilità di includere la professione di giornalista nella disciplina regolamentare.
Vista la relazione senza data pervenuta il 4 aprile 2001, con cui il Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica chiede il parere facoltativo del Consiglio di Stato in ordine al quesito in oggetto;
Visti i propri pareri interlocutori del 9 maggio e 14 novembre 2001;
Esaminati gli atti e udito il relatore – estensore, consigliere Armando Pozzi;
PREMESSO.
Riferisce l’Amministrazione che con nota del 26 febbraio 2001 il Presidente dell’Ordine dei giornalisti della regione Lombardia ha espresso l’avviso che la predetta professione debba essere considerata tra quelle ricompresse nella disciplina dell’art. 1, comma 18, della legge 14 gennaio 1999, come modificato dall’art. 6, comma 4, della legge 18 ottobre 1999, n. 370.
Tale normativa dispone che con uno o più regolamenti, adottati ai sensi dell’art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, di concerto con il Ministro di Grazia e Giustizia, sentiti gli organi direttivi degli ordini professionali – con esclusivo riferimento alle attività professionali per il cui esercizio la normativa vigente prevede in atto l’onere del superamento di un esame di Stato – sia modificata e integrata la disciplina del relativo ordinamento, dei connessi albi, ordini e collegi, nonché dei requisiti per l’ammissione all’esame di Stato e delle relative prove.
La norma dispone che gli atti di normazione secondaria dovranno essere coerenti con i sottoindicati criteri direttivi:
a) determinazione nell’ambito consentito di attività professionale ai titolari di diploma universitario e ai possessori di titoli istituiti in applicazione dell’art. 17, comma 95, della legge 15 maggio 1997, n. 127, e successive modificazioni;
b) eventuale istituzione di apposite sezioni degli albi, ordini e collegi in relazione agli ambiti di cui alla lettera a), indicando i necessari raccordi con la più generale organizzazione dei predetti albi, ordini o collegi;
c) coerenza dei requisiti di ammissione e delle prove degli esami di Stato con quanto disposto ai sensi della lettera a).
Per quanto concerne l’esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio della predetta professione i riferimenti normativi vigenti richiamati dall’amministrazione sono:
- l’art. 33, comma 5, della Costituzione;
- l’art. 2229 c.c. ;
- la legge 3 febbraio 1963, n. 69, che detta norme sull’ordinamento della professione giornalistica e, in particolare, l’art. 32;
- il D.P.R 4 febbraio 1965, n. 115, che prevede all’art. 44 la disciplina delle prove.
Queste ultime, aventi per oggetto l’accertamento dell’idoneità professionale dei praticanti giornalisti, sono del tutto assimilabili alle prove attitudinali prescritte dal decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 115, con il quale in attuazione alla direttiva n. 89/48 CEE, sono state disposte norme per il riconoscimento dei titoli accademico-professionali conseguiti in ambito europeo ai fini dell’esercizio in Italia delle corrispondenti professioni.
Riferisce ancora l’Amministrazione, che con parere del prof. Scoca, trasmesso al Consiglio Nazionale dell’Ordine, si esprime l’avviso che dalle riferite norme sulla "prova di idoneità professionale", prescritta ai fini dell’iscrizione all’albo dei giornalisti, risultino certamente i caratteri essenziali dell’esame di Stato.
L’Ordine evidenzia altresì che, poiché i provvedimenti attuativi della riforma dell’autonomia didattica di cui all’art. 17, comma 95, della legge n. 127 del 1997 e successive modificazioni prevedono una classe di laurea specialistica per la professione giornalistica (allegato 13/S al D.M. 28 novembre 2000, classe delle lauree specialistiche in editoria, comunicazione multimediale e giornalismo), l’inclusione della stessa nelle emanande norme regolamentari sarebbe coerente con i richiamati criteri direttivi della legge e quindi dovuta.
L’Amministrazione espone, ancora, le argomentazioni contrarie all’avviso dell’Ordine dei giornalisti, così sintetizzate: - non necessariamente una prova idoneativa concretizza un esame di Stato;
- necessità di non porre barriere all’accesso alle professioni in ambito comunitario ed interno, che siano giustificate da ragioni di tutela della pubblica fede, pur avendo presente che, per quanto riguarda la disciplina della predetta professione in ambito europeo, non risulta intervenuta alcuna direttiva in materia;
- criteri di composizione della commissione giudicatrice (prevalenza di rappresentanti dell’Ordine);
- mancanza di un titolo di studio necessario per l’esercizio della professione giornalistica.
Ciò premesso, dovendo il Ministero provvedere alla predisposizione del riferito regolamento delegato, si pone la questione se le norme della legge n. 69 del 1963 e del D.P.R. n. 115 del 1965 sulle prove di idoneità professionale e sulle prove d’esame abbiano o meno i caratteri dell’esame di Stato ai fini dell’abilitazione all’esercizio della professione di giornalista e se, conseguentemente, la predetta professione possa o meno essere inclusa nella nuova normativa.
Viene posto, altresì, il quesito se, nell’ambito del nuovo regolamento, possano essere introdotte le opportune integrazioni e modificazioni alle richiamate norme sulla professione giornalistica, auspicate dall’Ordine medesimo, al fine di pervenire ad una disciplina omogenea in materia.
Con parere interlocutorio del 9 maggio 2001 la Sezione chiedeva di acquisire il parere del Ministero di Grazia e Giustizia, competente in materia di Ordini professionali, nonché i verbali della Commissione ministeriale, c.d. "Commissione Rossi", limitatamente alle riunioni in cui si era dibattuto il problema della (non) riforma dell’Ordine dei giornalisti. A tale richiesta istruttoria ha dato riscontro l’amministrazione con nota de 6 agosto 2001, pervenuta il 4 settembre 2001, nella quale si comunicava che i lavori della Commissione Rossi non sono stati verbalizzati, ma trasfusi in una relazione finale, unita alla stessa nota, mentre il Ministero di Grazia e Giustizia non avrebbe dato riscontro alla richiesta.Con parere del 14 novembre 2001 la sezione, rilevando che l’Ordine dei giornalisti aveva fatto pervenire irritualmente, in quanto direttamente a questo Consiglio, proprie osservazioni datate 27 settembre e 15 ottobre 2001, e che ulteriore nota in data 8 novembre 2001, pervenuta il 13 novembre 2001 era stata fatta pervenire altrettanto irritualmente dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, alla quale venivano allegati un nuovo parere dell’avv. prof. Scoca ed un fax dell’O. dei Giornalisti; rilevandosi, ancora che si trattava di quesito facoltativo richiesto dall’amministrazione statale e non era stato acquisito il parere del Ministero di Grazia e Giustizia, la sezione si vedeva costretta a disporre un nuovo adempimento istruttorio, dovendosi acquisire le motivate osservazioni del Ministero sulle note dell’Ordine dei giornalisti, nonché il già richiesto parere del Ministero di Grazia e Giustizia, a tali adempimenti hanno dato riscontro i due Ministeri, della Giustizia e dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, trasmettendo il parere del Ministero della Giustizia – Ufficio legislativo, del 6 settembre 2001.
Il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei giornalisti ha fatto pervenire, altresì, il secondo parere del prof. Scoca in data 30 ottobre 2001.
In tale situazione, la sezione può pertanto procedere all’espressione del parere facoltativo.
CONSIDERATO
Con il quesito principale sottoposto all’esame di questo Consiglio il MURST chiede di sapere se possa essere ridisciplinata la materia della professione giornalistica in base alla delega contenuta nella recente legge n. 4/1999.
Al riguardo appare necessario procedere ad una ricostruzione del complessivo quadro normativo entro cui si colloca il quesito stesso.
La L. 14 gennaio 1999, n. 4, contenente disposizioni riguardanti principalmente il settore universitario e della ricerca scientifica, stabilisce, all’art.1, comma 18 (modificato dall’art.6, L. 19 ottobre 1999, n. 370), che con uno o più regolamenti adottati, a norma dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400 (regolamenti di delegificazione), su proposta del Ministro dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica, di concerto con il Ministro di grazia e giustizia, sentiti gli organi direttivi degli ordini professionali, con esclusivo riferimento alle attività professionali per il cui esercizio la normativa vigente già prevede l’obbligo di superamento di un esame di Stato, è modificata e integrata la disciplina del relativo ordinamento, dei connessi albi, ordini o collegi, nonché dei requisiti per l’ammissione all’esame di Stato e delle relative prove, in conformità ai seguenti criteri direttivi:
a) determinazione dell’ambito consentito di attività professionale ai titolari di diploma universitario e ai possessori dei titoli istituiti in applicazione dell’articolo 17, comma 95, della legge 15 maggio 1997, n. 127, e successive modificazioni (che ha demandato ai singoli atenei la disciplina dell’ordinamento degli studi dei corsi universitari);
b) eventuale istituzione di apposite sezioni degli albi, ordini o collegi in relazione agli ambiti di cui alla lettera a), indicando i necessari raccordi con la più generale organizzazione dei predetti albi, ordini o collegi;
c) coerenza dei requisiti di ammissione e delle prove degli esami di Stato con quanto disposto ai sensi della lettera a).
La norma primaria prevede, dunque, un processo di riordino delle singole professioni che siano organizzate, in base alla normativa vigente in ordinamenti settoriali, caratterizzati dai requisiti concorrenti dell’esame di stato e dall’istituzione di albi, ordini e collegi professionali alla cui iscrizione il superamento dell’esame è strumentale.
Occorre aggiungere che la finalità della norma è quella di adeguare i contenuti dell’attività professionale e del relativo esame di Stato all’evoluzione normativa dell’ordinamento degli studi universitari, avviata dall’art.17, comma 95, dalla legge n. 127/1997, al quale, appunto, la legge n. 4/1999 ha apportato modificazioni
Il motivo per cui l’amministrazione – ed in particolare la speciale commissione nominata dal Ministero della Giustizia per l’applicazione della predetta normativa – sembrerebbe orientata nel senso di escludere dal processo di riforma normativa delle professioni quella di giornalista, consisterebbe nel fatto che per l’accesso all’esercizio professionale dell’attività giornalistica l’attuale ordinamento non prevede in "esame di Stato".
In effetti, l’art. 32 (rubricato "Prova di idoneità professionale") della L.3 febbraio 1963, n. 69, che ha disciplinato, dopo un lungo e contrastato dibattito parlamentare, l’ordinamento della professione di giornalista, dispone che l’accertamento dell’idoneità professionale, di cui al precedente art.29, necessario per l’iscrizione all’albo istituito dall’art. 26 della stessa legge, consiste in una prova scritta e orale di tecnica e pratica del giornalismo, integrata dalla conoscenza delle norme giuridiche che hanno attinenza con la materia del giornalismo.
La dizione della normativa relativa alla professione di giornalista si discosta dunque, all’evidenza, da quella di "esame di stato" usata dalla riportata legge n. 4/1999, la quale, a sua volta, ripete la formula generale di principio di cui all’art. 33, comma 5, della Costituzione ("E’ prescritto un esame di Stato….per l’abilitazione all’esercizio professionale").
Si tratta dunque di stabilire se tale difformità terminologica sia influente al fine della soluzione del quesito proposto. Questa Sezione ritiene di no.
La giurisprudenza costituzionale ha avuto più volte occasione di precisare che la norma dell’art. 33 Cost. reca in sé un principio di professionalità specifica. Essa, cioè, richiede che l’esercizio di attività professionali rivolte al pubblico avvenga in base a conoscenze sufficientemente approfondite ed ad un correlato sistema di controlli preventivi e successivi di tali conoscenze, per tutelare l’affidamento della collettività in ordine alle capacità di professionisti le cui prestazioni incidono in modo particolare su valori fondamentali della persona: salute, sicurezza, diritti di difesa, etc. (C.Cost., 23 dicembre 1993, n. 456; 26 gennaio 1990, n. 29).
L’esame di Stato costituisce la forma principale ed iniziale di siffatti controlli e per questo esso assume tale denominazione, che vale ad evidenziare l’intervento dello Stato nel congegnare e disciplinare, sotto vari profili (composizione delle commissioni giudicatrici, contenuto delle prove d’esame, etc.) i meccanismi di verifica della professionalità, che debbono consistere in una "prova tecnica circondata da particolari garanzie" di imparzialità, serietà e professionalità specifica (C.Cost., 2 maggio 1985, n. 127).
Nella ricorrenza dei predetti presupposti e requisiti, il nomen juris del procedimento di verifica della capacità ed idoneità tecnica di chi aspiri a svolgere una determinata professione ritenuta di interesse generale è irrilevante. Ed infatti, la ricordata giurisprudenza costituzionale ha ribadito più volte che lo strumento di controllo che vale ad assicurare l’indispensabile vaglio di specifica idoneità tecnica all’esercizio della professione è dato "da esame di Stato o equipollente di esso" (C.Cost. n. 127/1985, cit.; 28 maggio 1987, n. 202, sub punto 3 motivazione; 21 gennaio 1999, n. 5, sub punto 3 della motivazione).
Il concetto di equipollenza, che si trova ripetuto più volte nel linguaggio della Corte, deve correlarsi con l’altro insegnamento dello stesso Giudice delle leggi, secondo cui il legislatore gode di ampi margini di discrezionalità nel determinare le professioni intellettuali per le quali si ritenga necessaria l’istituzione di speciali ordinamenti professionali caratterizzati dall’istituzione di un albo e da un preventivo accertamento costitutivo della relativa idoneità [C. Cost., 10 febbraio 1997, n. 38, relativa al referendum abrogativo dell’Ordine dei giornalisti; cfr. anche sentenze nn. 174/1980 e 26/1990]. Conseguentemente, la discrezionalità legislativa può anche investire aspetti formali e sostanziali delle prove tese a quell’accertamento, nei limiti, naturalmente, del rispetto delle finalità e conseguenti modalità delle prove stesse. Al riguardo si è ritenuto conforme al precetto costituzionale dell’art. 33, comma 5, un meccanismo valutativo che, seppur non formalmente congegnato come "esame di stato", soddisfi comunque "l’esigenza di un serio ed oggettivo accertamento dell’attitudine e capacità professionale richieste" dal richiamato precetto costituzionale [C. Cost., 23 dicembre 1993, n. 456, relativa agli assistenti medici assegnati ai laboratori di analisi, per i quali è stato ritenuto corretto esercizio della discrezionalità legislativa l’art. 17 del DPR n. 761/1979, che assicura(va) un adeguato procedimento di verifica delle capacità "di laboratorio" dei suddetti medici].
Con specifico riferimento, poi, alla professione giornalistica la Corte ebbe a chiarire, in occasione del referendum abrogativo del 1997, che l’Ordine professionale dei giornalisti ha il compito di salvaguardare erga omnes e nell’interesse della collettività la dignità professionale e la libertà di informazione e di critica dei propri iscritti; il predetto Ordine non si pone pertanto in contrasto con i principi di libera manifestazione del pensiero, chiunque potendo scrivere per e su pubblicazioni di natura giornalistica, senza avere il titolo di giornalista [C. Cost., 10 febbraio 1997, n. 38]. Con ciò la Corte ha ribadito la distinzione tra giornalista munito di una specifica e verificata capacità di informazione e coloro che sono legittimati a scrivere sugli organi di informazione senza avere quella specifica capacità debitamente verificata e dichiarata.
Sempre a proposito della professione giornalistica, la stessa Corte ebbe a chiarire che l’Ordine professionale dei giornalisti è (al pari degli altri ordini e Collegi professionali) ente pubblico non economico che emette provvedimenti costitutivi del particolare status professionale di giornalista, al fine di perseguire fini di interesse generale, che superano di gran lunga la tutela sindacale dei diritti della categoria nel rapporto di lavoro subordinato con l’impresa giornalistica [C. Cost., 8 febbraio 1991, n. 71; che richiamò la precedente sentenza n. 11 del 1968].
Facendo applicazione di tali concetti all’attività giornalistica, non appare contestabile che essa rientri nel novero delle professioni per il cui esercizio occorra il superamento di una selezione equipollente (per dirla con la Corte) ad un esame di stato.
Non è dubitabile che l’attività giornalistica costituisca "esercizio professionale" come previsto dall’art. 33, comma 5, Cost. Essa, infatti, anche se svolta nella forma di lavoro dipendente, rientra nella previsione delle "professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi o elenchi", di cui all’art. 2229 cod. civ. Tale professione è infatti subordinata all’iscrizione nell’albo dei giornalisti istituito, come detto, dalla legge n. 69/1963.
Condizione per l’iscrizione in tale albo è il superamento di una "prova di idoneità professionale" caratterizzata da quei requisiti di serietà e oggettività, di cui è riferimento nelle pronunce della Corte sopra ricordate; art.32 L. n. 69 ed art. 44 del regolamento attuativo emanato con DPR 4 febbraio 1965, n. 115.
L’istituzione dell’Ordine e del relativo albo per l’esercizio della professione giornalistica è, poi, correlata al valore costituzionale del diritto all’informazione libera, di cui all’art. 21, comma 2, Cost. e trova dunque una specifica e rafforzata ragione nell’interesse generale di "salvaguardare la dignità professionale e la libertà di informazione e di critica degli iscritti" [C. Cost., n. 38/1997, cit; 8 febbraio 1991, n. 71].
La natura professionale dell’attività giornalistica trova, d’altronde, conforto dal combinato dispositivo dall’art. 1, comma 3 e dell’art. 2, del D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 115 (Attuazione della direttiva n. 89/48/CEE relativa ad un sistema generale di riconoscimento dei diplomi di istruzione che sanzionano formazioni professionali di una durata minima di tre anni) e nel decreto MURST del 28 novembre 2000.
La prima fonte ha fissato il principio per cui l’esercizio delle professioni presuppone il superamento di un ciclo di studi postsecondari di una durata minima di tre anni o di durata equivalente a tempo parziale, in una università o in un istituto di istruzione superiore o in altro istituto dello stesso livello di formazione.
La seconda, emanata in attuazione dell’art. 4, comma 2, del D.M. n. 509 del 3 novembre 1999 sull’autonomia didattica degli atenei, nel determinare le classi delle lauree specialistiche (il diploma di laurea di una volta) ha individuato all’allegato 13 la classe 13/S, intitolata "editoria, comunicazione multimediale e giornalismo", indicandone le relative materie d’esame ("attività formative").
L’attività giornalistica si configura, dunque, vieppiù oggi come professione in relazione all’aumentato bagaglio culturale specifico per il suo espletamento: bagaglio in relazione al quale appare obsoleto – e dunque suscettibile di revisione normativa secondo l’intento legislativo della legge n. 4/1999 – il contenuto delle prove d’idoneità come oggi configurato dall’art. 2 della L. n. 69/1963 e dall’art. 44 del DPR n. 115/1965. Infatti, mutati i requisiti culturali per l’esercizio di una professione, l’accertamento dell’idoneità professionale non può prescindere da essi, tenuto conto che "il titolo di studio precede la maturazione professionale" [C. Cost., 27 luglio 1995, n. 412, a proposito della professione di psicologico].
In tale mutato contesto dell’ordinamento universitario la riforma dell’esame per giornalista appare oltretutto quantomeno opportuna, in quanto risponderebbe alla finalità di adeguamento perseguite dalla legge n. 4/1999, di cui si è fatto cenno all’inizio.
D’altra parte, nella giurisprudenza costituzionale non si è mai dubitato che anche quello di giornalista, al pari di altre professioni (come ad es. gli avvocati, gli ingegneri, i geometri, etc.) costituisce un ordinamento speciale, con le conseguenti caratteristiche comuni, tra cui quella dell’accesso mediante selezione rigorosa ed oggettiva [C. Cost., 14 dicembre 1995, n. 505, relativa al procedimento penale dei giornalisti).
In tale quadro argomentativo, perde di significato l’obiezione principale intorno alla quale l’Ufficio legislativo del Ministero della Giustizia costituisce il proprio orientamento negativo alla riforma della professione giornalistica: l’argomento, cioè, che per l’esercizio di questa professione la normativa vigente non prevede il possesso di un titolo di studio, quale requisito necessario per la partecipazione alla "prova di idoneità professionale".
Al riguardo, vale ricordare che in base all’art. 33 della legge n. 69/1963 per l’iscrizione nel registro dei praticanti della professione giornalistica – iscrizione necessaria al fine di maturare il periodo di 18 mesi di pratica per sostenere la prova d’idoneità – è necessario altresì avere superato un esame di cultura generale, diretto ad accertare l’attitudine all’esercizio delle professione. Non sono tenuti a sostenere la prova di esame di cultura generale i praticanti in possesso di titolo di studio non inferiore alla licenza di scuola media superiore. A sua volta, l’art. 37 del regolamento n. 115/1965, modificato dall’art. 8, D.P.R. 3 maggio 1972, n. 212, nel disciplinare l’esame di cultura generale, dispone che le prove dell’esame per la iscrizione nel registro dei praticanti, sono scritte ed orali. La prova scritta consiste nello svolgimento di un argomento di interesse attuale scelto dal candidato tra quelli indicati, in numero di quattro, dalla Commissione esaminatrice su materie diverse, al fine di verificare se l’aspirante possieda la formazione culturale generale indispensabile per chi intende avviarsi all’esercizio dell’attività giornalistica. Per l’espletamento della prova scritta sono assegnate al candidato tre ore. La prova orale consiste, a sua volta, in una conversazione su argomenti di cultura generale che presentino carattere di attualità, con particolare conoscenza dei seguenti argomenti e materie: a) principi di diritto costituzionale; b)nozioni di storia del ventesimo secolo; c) problemi ed orientamenti della politica italiana del dopoguerra; d) elementi di geopolitica; e) il sindacalismo ieri e oggi; f) orientamenti della letteratura e dell’arte contemporanee; g) storia del giornalismo ed ordinamento della professione; h) fonti di informazione italiane e straniere (agenzie di stampa, giornali, etc.) e principali mezzi bibliografici di consultazione e ricerca; i) i più importanti avvenimenti che hanno fornito materia ai giornali negli ultimi 12 mesi.
Anche se la normativa primaria e secondaria allo stato non richiedono, pertanto, formalmente uno specifico e tipico titolo di studio come per le altre professioni protette, come requisito essenziale per la partecipazione alla prova di idoneità, tuttavia essa non è svincolata dall’accertamento preventivo del possesso di un grado di cultura di livello quantomeno preuniversitario, dimostrato o attraverso il possesso del titolo di studio di scuola media superiore, ovvero da un esame di cultura, articolato, oggettivamente e soggettivamente, sulla falsariga di un esame di maturità.
Quindi, la prova di idoneità professionale è preceduta dal possesso di un grado elevato di cultura generale e specifica (cfr., ad es., la "geopolitica") funzionale all’esercizio della professione giornalistica, per la quale il legislatore non ha ritenuto tuttavia di fissare il possesso di un titolo di studio tipico e predeterminato per una serie di motivi storici, ordinamentali, di mercato del lavoro, di realtà imprenditoriali: basti pensare, al riguardo, che alla professione giornalistica si sono avviati numerosi professionisti in età giovanissima, anteriore a quella necessaria per la conclusione dei cicli universitari; inoltre, la capacità di raccogliere notizie e diffonderle al pubblico in modo oggettivo, chiaro ed esauriente si è maturata, nell’esperienza e nella storia del giornalismo, a prescindere dal possesso di una specifica formazione scolastica od universitaria, che peraltro sino a tempi recentissimi è mancata, come detto sopra.
In definitiva, la mancata individuazione di un tipico titolo di studio per sostenere quella prova si spiega con la particolare natura dell’attività giornalistica, che è la più liberale delle professioni, consistente in un particolare prodotto della manifestazione del pensiero attraverso la stampa periodica o i servizi radiofonici e televisivi, la cui specificità sta nella particolare sintesi fra manifestazione del pensiero e la funzione informativa [cfr., al riguardo, Cass., sez. lav., 25 maggio 1996, n. 4840; id., 20 febbraio 1995, n. 1827].
La professione giornalistica in quanto rivolta alla raccolta, al commento, all’elaborazione di notizie al fine della loro diffusione, secondo procedimenti acquisitivi e valutativi più svariati non è stata ritenuta riportabile in alcun percorso formativo e scolastico fisso e predeterminato, essendo molteplici le forme ed i percorsi culturali attraverso i quali si prepara la capacità del giornalista, la quale, oltretutto, è di tipo e contenuti non solo astratti, ma anche e essenzialmente pragmatici, come si desume dalla disciplina sul praticantato. Inoltre, la mancanza, da parte del legislatore dell’individuazione di un titolo scolastico predeterminato si spiega anche con il valore costituzionale del diritto attivo all’informazione ed alla manifestazione del proprio pensiero, nonché della libertà di stampa. La mancanza di un titolo di studio tipicamente funzionale all’attività giornalistica si spiega, inoltre, come già accennato, con il dato storico dell’inesistenza di scuole pubbliche di giornalismo, le quali sono state da sempre surrogate in parte da istituzioni e centri privati e in particolare dalla scuola di giornalismo istituita con delibera del Consiglio dell’Ordine della Lombardia del 1974. Ma si tratta di una situazione destinata a mutare con la creazione di uno specifico percorso accademico volto all’acquisizione di specifiche competenze in materia giornalistica, proprio in relazione al quale si pone l’esigenza della revisione dell’attuale disciplina degli esami di Stato per l’iscrizione all’albo.
Superato il dato formale del titolo di studio, tutte le argomentazioni svolte dall’Ufficio legislativo del Ministero della Giustizia sono destinate a cadere, atteso che l’attività professionale di giornalista si svolge sotto il controllo di un ente pubblico istituito nella forma del collegio professionale operante al pari degli altri ordini e previo superamento di una specifica prova, rigorosa e selettiva, volta all’accertamento dell’idoneità specifica per il corretto svolgimento dell’attività professionale a garanzia del diritto costituzionale ad un’adeguata e oggettiva informazione [cfr. C. Cost., 21 gennaio 1999, n. 5].
Circa i requisiti di rigore selettivo posseduti della prova di idoneità giornalistica, non se ne può dubitare, tenuto conto di quanto disposto dall’art. 44 del regolamento n. 115 del 1965, come da ultimo sostituito dall’art. 1, D.P.R. 21 settembre 1993, n. 384.
La norma, infatti, nel dettare la disciplina della prova di idoneità professionale, dispone che essa si articola, conformemente alla previsione della legge, anzitutto in una prova scritta e consiste: a) nello svolgimento di una prova di sintesi di un articolo o di altro testo scelto dal candidato tra quelli forniti dalla commissione in un massimo di 30 righe dattiloscritte (da 60 battute ciascuna); b) nello svolgimento di una prova di attualità e di cultura politico-economico-sociale riguardanti l’esercizio della professione mediante questionari articolati in domande cui il candidato è tenuto a rispondere per iscritto; c) nella redazione di un articolo, contenuto in una pagina e mezzo dattiloscritta di 45 righe da 60 battute ciascuna, su argomenti di attualità scelti dal candidato tra quelli, in numero non inferiore a sei (interni, esterni, economia-sindacato, cronaca, sport, cultura spettacolo) proposti dalla commissione, anche sulla base dell’eventuale documentazione dalla stessa fornita.
La prova orale, a sua volta, consiste in un colloquio diretto ad accertare la conoscenza dei principi dell’etica professionale, delle norme giuridiche attinenti al giornalismo e specificatamente delle tecniche e pratiche inerenti all’esercizio della professione. In particolare essa si svolge sulle seguenti materie: a) elementi di storia del giornalismo; b) elementi di sociologia e di psicologia dell’opinione pubblica; c) tecnica e pratica del giornalismo: elementi teorici fondamentali: esercitazione di pratica giornalistica; d) norme giuridiche attinenti al giornalismo: elementi di diritto pubblico; ordinamento giuridico della professione di giornalista e norme contrattuali e previdenziali; norme amministrative e penali concernenti la stampa; elementi di legislazione sul diritto di autore; e) etica professionale; f) i media del sistema economico italiano. La prova orale comprende anche la discussione di un argomento di attualità, liberamente scelto dal candidato, nel settore della politica interna, della politica estera, dell’economia, del costume, dell’arte, dello spettacolo, dello sport, della moda o di qualsiasi altro campo specifico nel quale egli abbia acquisito una particolare conoscenza professionale durante il praticantato. Analoga scelta può essere compiuta dal candidato nella materia delle norme giuridiche attinenti al giornalismo. L’argomento o gli argomenti prescelti, compendiati in un breve sommario, debbono essere comunicati alla commissione almeno tre giorni prima della prova, e da essi può prendere l’avvio il colloquio allo scopo sia di mettere il candidato a suo completo agio sia di valutarne le capacità di ricerca e di indagine, di attitudine alla inchiesta e di acume critico, di discernimento e di sintesi. A conclusione della prova orale il presidente comunica al candidato il giudizio della commissione sulla prova scritta e, a richiesta del candidato, gli mostra l’elaborato sottolineandone in breve i limiti e/o i pregi e/o fornendo eventuali chiarimenti.
Come si vede, la quantità, complessità e specificità delle "materie" oggetto di prova selettiva evidenzia la difficoltà e serietà della selezione, la quale, sia detto per inciso, presuppone un grado di preparazione, cultura e capacità non inferiori a quelle di livello universitario e comunque consiste in una serie di accertamenti teorico-pratici del tutto congeniali al corretto svolgimento dell’attività giornalistica, come sopra definita e finalizzati a quella verifica di idoneità tecnica, cui è preordinato l’esame di Stato (C. Cost. n. 5/1999 relativa alla professione di praticante procuratore legale).
D’altra parte, l’assimilazione della professione giornalistica a quella delle altre professioni cui si accede mediante un esame di Stato si evince da altri dati positivi.
Non va dimenticato, infatti, che in base all’art. 45 della legge n.69, la professione di giornalista è caratterizzata dalle stesse garanzie "passive" predisposte per le altre professioni "protette" dagli art.348 (esercizio abusivo di professione per la quale è richiesta speciale abilitazione dello Stato) e 498 (usurpazione di titolo) c.p.
La particolare tutela penale di cui il legislatore ha voluto circondare l’esercizio della professione giornalistica è l’ulteriore dimostrazione della particolare importanza che essa assume nel nostro ordinamento e costituisce ulteriore elemento interpretativo per qualificare le prove di ammissione a quella professionale in termini di rigore e qualificazione. In tale contesto, appare improprio invocare un dato meramente tecnologico ("prova" invece di "esame") per negare l’esigenza di una riforma dell’ordinamento in questione, tenuto conto che la "prova di idoneità" alla professione di giornalista è assistita da quelle garanzie di oggettività e tecnicità più volte richiamate dalla giurisprudenza costituzionale sopra ric
Quanto alla commissione giudicatrice della prova in questione, che secondo il Ministero della Giustizia mancherebbe dei requisiti della terzietà ed imparzialità e quindi della statualità, è da considerare che essa, secondo quanto stabilisce l’art. 32 della legge n. 69/1963, è composta da sette membri, di cui cinque scelti tra i giornalisti professionisti con oltre dieci anni di iscrizione all’albo e due magistrati ordinari nominati dal Presidente della Corte d’Appello di Roma. In tal modo viene assicurata la tecnicità e l’imparzialità dei membri della commissione – elementi essenziali per garantire la finalità dell’esame di Stato – in misura anche superiore a quella degli altri esami di Stato e degli ordinari concorsi d’accesso al pubblico impiego, attesa la presenza di ben due magistrati tra i membri della commissione.
Il fatto, poi, che la nomina della maggioranza dei membri più squisitamente "tecnici" (i cinque giornalisti) non avvenga con provvedimento di un organo dello Stato-apparato, ma direttamente dal Consiglio Nazionale dell’Ordine, non fa venir meno il carattere "statuale" della prova in questione, tenuto conto che, secondo la costante giurisprudenza, gli Ordini professionali, compreso quello dei giornalisti (C. Cost. n. 11/1968 n. 505/1995), sono enti pubblici non economici, i quali, in considerazione della loro struttura, dai poteri pubblicistici di cui sono investiti, degli interessi pubblici da essi perseguiti, dei controlli ministeriali ai quali sono soggetti, appartengono al novero delle pubbliche amministrazioni in senso oggettivo e soggettivo.
L’atto di nomina dei componenti della commissione giudicatrice è, dunque, atto amministrativo e si colora, pertanto, nel connotato della "pubblicità" o della "statualità, al pari di quello proveniente da un organo ministeriale.
D’altra parte, la specialità del procedimento di nomina, affidata direttamente all’Ordine, si spiega con l’esigenza di assicurare il valore costituzionale, insito nel citato art. 21 della Cost., della libertà e dignità (oltre che professionalità) del giornalista, che potrebbe risultare compromesso (come peraltro evidenziato dai timori emersi dai lavori della legge 69/1963 sul punto) da una commissione nominata direttamente dal Potere esecutivo, anziché dallo stesso organo rappresentativo dell’ordinamento autonomo dei giornalisti.
Ove poi si volesse enfatizzare un dato testuale, non va dimenticato che in base al vigente art. 33 della legge n. 69/1963 l’iscrizione nell’elenco dei praticanti giornalisti presuppone il superamento di un "esame" di cultura generale, e non di una "prova".
La natura pubblicistica dell’Ordine dei giornalisti vale poi a smentire l’ulteriore argomentazione del Ministero di Giustizia, laddove si tende a negare il carattere specialistico della professione giornalistica, ciò che giustificherebbe la mancanza di un titolo di studio e, correlativamente, la natura selettiva della prova d’idoneità. Oltre a quanto già detto circa il contenuto prettamente specialistico e mirato delle materie oggetto di prove d’idoneità, la creazione di un ente pubblico preposto istituzionalmente al governo di una data professione sta a dimostrare, al contrario, la particolare complessità della professione sul piano dei contenuti e, correlativamente, la necessità di una valutazione preventiva e di un controllo continuo sulle capacità di svolgere la professione stessa, a tutela degli iscritti e dei cittadini destinatari di essa.
Al quesito posto dall’amministrazione deve dunque darsi la seguente risposta: non sussistono motivi ostativi alla riforma dell’ordinamento professionale dei giornalisti, come prevista dall’art. 1, comma 18, della legge n. 4 del 1999, citato all’inizio delle presenti considerazioni.
Quanto all’ulteriore e correlato quesito circa i contenuti del futuro regolamento, esso non può che avere risposta generica, attesa la discrezionalità che l’amministrazione ha nel predisporre il testo normativo. Sul punto della mera legittimità la Sezione non può che richiamare i principi generali innanzi esposti anche con riferimento alla richiamata giurisprudenza costituzionale.
D’altra parte, il testo del futuro regolamento dovrà superare il necessario vaglio della diversa Sezione consultiva di questo Consiglio, a ciò istituzionalmente competente ai sensi dell’art. 17, comma 28, della legge n. 127/1997.
Piuttosto, è da sottolineare un dato che l’amministrazione non ha in alcun modo considerato, trattandosi di evento sopravvenuto. Infatti, successivamente alla richiesta di parere facoltativo è stata emanata la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, la quale ha apportato modifiche al titolo V, parte seconda, della Costituzione.
Per quel che qui interessa, la legge citata ha modificato, tra gli altri, l’art. 117 Cost., introducendo nuovi criteri di riparto di competenze normative fra Stato e Regioni, secondo principi di tipicità e tassatività nei confronti del primo e di residuità e sussidiarità in favore delle seconde. Merita particolare attenzione il disposto del comma 5 dell’art. 117, secondo cui la potestà regolamentare aspetta allo stato nelle materie di propria legislazione esclusiva, mentre alle Regioni compete il potere regolamentare in ogni altra materia, sia essa di legislazione regionale esclusiva o concorrente. Poiché tra le materie di legislazione esclusiva statale la nuova versione dell’art. 117 non elenca quella della formazione professionale e della disciplina della relativa attività (la quale è contemplata nel comma 3 solo come materia oggetto di legislazione concorrente), sembrerebbe che su tale materia sia precluso ogni intervento regolamentare, quantomeno diretto, dello Stato.L’amministrazione, quindi, nel dar corso alle iniziative normative applicative della legge n. 4/1999 dovrà tener conto delle nuove e complesse problematiche che la legge costituzionale n. 3/2001 ha aperto nell’ambito del sistema delle fonti di produzione. In tale opera interpretativa la stessa amministrazione dovrà tener conto anche degli orientamenti che emergeranno in seno a questo Consiglio, ed in particolare nell’ambito della Sezione consultiva per gli atti normativi e dell’Adunanza Generale (quest’ultima, ad esempio, già si è pronunciata in merito ai criteri di riparto di competenze regolamentari tra Stato e Regioni in materia di legislazione esclusiva o concorrente regionale, per le quali si debba dare attuazione a direttive comunitarie: cfr. parere n. 2/02 del 25 febbraio 2002).
PQM Nelle esposte considerazioni viene reso il richiesto parere
IL PRESIDENTE DELLA SEZIONE
Salvatore Rosa
L’ESTENSORE
Armando Pozzi